Il Tendales in Sahara

Akkafahr in tamahaq significa europeo. Il più delle volte viene usato come termine spregiativo. "Cafard" in francese vuol dire magone. E' solo una combinazione, chiaramente, che le due parole abbiano la stessa musicalità. Ma quella sera, a Tagrambait, quando Hotman ci gridò: " Alè, Akkafahr " lessi nei suoi occhi un'immensa tristezza.
E' iniziato, infine, il giro del mondo per il tendales di pittura popolare. E' dal 1981, da quando iniziai a fare dipingere quell'immenso rotolo di tela dalla gente che mi si chiede: "E poi? Cosa te ne farai?" Ed io: Voglio fare il giro del mondo per raccogliere le espressioni più vere dell'umanità prima che si estingua del tutto. In questi cinque anni circa mille persone sono apparse, con i loro sogni colorati, sul "Mondo Dentro Ognuno Di Noi". Mille persone in questa piccola frazione di provincia che è l'Italia rispetto al mondo. Era ora di partire. Partire con i seicento metri già dipinti e con altri cento metri ancora bianchi. Non è stato facile trascinarsi per il deserto del Sahara quei duecento chili gonfi di sogni, di mani, di grida. Il primo approccio del "Mondo" nel... mondo è stato proprio il deserto, l'incontrastato territorio dei Touareg. Forse è per meglio sottolineare il drammatico problema dell'estinzione del genere umano che si è voluto visitare proprio i Touareg. E' risaputo che il loro modo di vita si va, mano a mano, sempre più deteriorando ed insieme a lui tutta la loro cultura. Questo nostro immenso "racconto per immagini" non voleva, andando da loro, prefiggersi lo scopo di rivitalizzare la loro cultura, appunto, o scavare nel passato per prelevarne dei campioni per musei. Molto più semplice! Molto più umano! Era solamente il bisogno d'entrare nei loro mondi attuali, in crisi o ancora puri, portando un pretesto per incontrarsi reciprocamente senza che nessuna delle parti rinunciasse alla propria realtà. Un gioco, insomma, un gioco senza conseguenze stabilite al di là di ciò che sarebbe potuto nascere durante le fasi del gioco stesso.
David Farina, Gigi Rosmino, Piero Rubatti e Lucia Vacchiani, queste le persone che hanno affrontato questa esperienza nuova ed affascinante. David era quasi obbligatorio che vi dovesse partecipare. E' sempre stato presente con le sue macchine fotografiche ad ogni esposizione del telone. E' stato importante che ci fosse, anche questa volta, con il suo occhio simile, ormai, ad un obiettivo. Gigi e Piero, due giramondo esperti di lunghi viaggi, provati alle situazioni più disagiate, amanti delle strade che, solo con un "forse" onnipresente, portano nuovamente a casa. Diversi come carattere, ma fondamentali per questo battesimo. Piero preferì la sua moto Honda alle comodità di un'auto. Gigi guidò la sua fedele Land Rover rossa. Lucia, un'eclettica ragazza di Finale Ligure, pazza e coraggiosa, accompagnava Piero sulla sua grossa moto... Cinque persone, dunque (me compreso), due Land Rover, una moto, trenta chili di colore, centocinquanta pennelli e, naturalmente, un enorme serbatoio d'acqua. Non c'era all'inizio un itinerario preciso. Ci siamo affidati totalmente alla buona sorte. Soprattutto quando, subito dopo Tunisi, si è rotto l'albero motore di una delle auto. Buona sorte, dunque, e portafoglio alla mano. E' stato emozionante fare il passaporto al "pupo"(lo abbiamo chiamato così il tendales). Un passaporto timbrato alle Belle Arti di Genova, timbrato e ritimbrato agli uffici doganali del porto. Davvero gentili i funzionari che sono rimasti in bilico tra lo stupefatto ed il divertito. Sono pronto a giurare che avrebbero voluto imbarcarsi volentieri anche loro insieme a noi.
Tagrambait! E' stato il primo villaggio, a sud di Tamanrasset. Ci accompagnò là, un pittore targui che vive ed opera a Tam. Ci disse che lui non avrebbe potuto fare neanche un disegno perché gli artisti, in Algeria, sono governativi, ed in pratica tutte le loro opere, anche dei semplici schizzi, appartenevano non a lui come creatore ed artefice di quelle espressioni, ma allo stato. Ci avrebbe aiutati, però, quello sì, l'avrebbe fatto perché, disse "un progetto così deve andare avanti". Il nostro pittore lo chiamerò solo F. la paura, la diffidenza con la quale si muoveva a Tam mi obbliga a pensare che quello che ha fatto per noi lo ha fatto ai margini della legalità.
Tagranbait, dunque: trenta zeriba in tutto. Bambini grandi occhi, tante mosche, che seguono la scuola dei loro nonni. Non sanno scrivere e per leggere il deserto, basta viverci dentro giorno e notte ed affrontarlo con rispetto. Mai con paura. Forse cento persone in tutto. Risorse: pastorizia, agricoltura. Tutto intorno a loro sabbia e sassi. E loro dentro quel fazzolettino di verde, un'acqua che cammina sotto terra, di nascosto. F. ci presentò al giovane capo, Mubakàhr. Tentò di spiegargli il nostro progetto. Mubakàhr non capì molto. Disegnare era una parola nuova ed oscura ma si mostrò disposto ad aiutarci per qualsiasi cosa avessimo avuto bisogno. F. ci lasciò soli. Ci mise a disposizione il suo zeriba e se ne andò. Abituati a vivere nell'auto, quella capanna di canne ci sembrò un albergo. Ostentammo appena un atteggiamento primitivo. Forse è tipico della nostra cultura giocare al comportamento degli altri. Ma scivolò via subito. Ci mettemmo quasi immediatamente al lavoro. Nello stesso pomeriggio il telone bianco era steso, pronto a ricevere altri sogni, altri messaggi. Mubakàhr era lì. C'erano degli altri ragazzi. Poco più lontano un gruppo di bambini, tante mosche, tentavano di nascondersi dietro la macchina. Mubakàhr ed i suoi amici tentavano di capire il nostro gioco per darci una mano. Immaginavano, forse, che fossero quelli i momenti in cui avremmo avuto bisogno di loro. Finalmente arrivò l'istante nel quale posammo a terra l'ultima vaschetta piena di colore. C'erano i pennelli... c'era tutto. Guardai Mubakàhr implorando che riuscisse a capire. Lui mi guardò interrogativamente. Non mi restò che prendere una vaschetta ed un pennello ed iniziare un disegno. Un'onda che si allontanava da un viso che qualcuno aveva tracciato ad Imperia, l'ultima volta che lo avevamo esposto. Mubakàhr m'imitò. Prese il rosso e disegnò un serpente. "Aschleen!" mi disse. "Serpente" in tamahaq. I suoi amici fecero altrettanto, con altri colori. Tanti serpenti presero forma sul tessuto. Ero troppo emozionato per tentare di spiegare che ognuno poteva fare ciò che voleva. Riuscii solo a chiedere a Mubakàhr di chiamare anche i bimbi che si tenevano lontani. Il giovane diede un ordine secco. Prima arrivarono le mosche poi loro, i bambini. Neanche a dirlo anche loro riuscirono a copiare, in più piccolo, la vipera del loro capo. Mubakàhr fece, poi, uno scorpione. Mi spiegò cosa fosse. Mi disse la parola in tamahaq. Tanti scorpioni nacquero negli spazi bianchi. Tante misure, differenti colori. Scorpioni per ogni gusto. Sembrava, quasi, di assistere ad un coro tanto era armonico il gioco. Ognuno vibrava il proprio disegno con una tonalità diversa. C'era comunque una sorta di disagio tra noi, qualcosa che ci separava. Qualcosa che ci impediva di concederci del tutto. I nostri reciproci sorrisi tentavano di dissipare quel velo d'imbarazzo. Ci sbirciavamo di sfuggita e un sorriso scappava ogni tanto. II meccanismo del disegno entrò poco dopo come un lampo Come diventa facile una danza una volta che il tamburo batte il tempo! Mubakàhr, per scherzo, tenta di rubare al suo vicino un po' del suo colore. Con stupore si accorge di aver creato una nuova tinta. Ripetè il procedimento con altre vaschette. Scopre il colore delle sue dune, delle case del villaggio, del fiume quando riesce a frantumare le pietre con le acque rabbiose che si trascina, degli orti che oziano tra le pieghe di una terra vecchia ed arida. Gli altri lo guardano. Anche loro capiscono la danza. Ognuno, da quel momento, balla a modo proprio. Quello è stato il momento collettivo più bello. Io e Gigi distribuivamo i colori che ci richiedevano. Non potevamo sbagliare. Cercavano la tonalità esatta. Non scendevano al compromesso del "tanto va bene lo stesso". Ho dovuto rifare quattro volte un marrone per Mubakàhr che lo voleva in un certo modo. Per quattro volte scuoteva la testa. Alla quinta volta mi sorrise, alzò il pollice. Non è andava solo bene: era perfetto.
L'amicizia con i grandi fu subito emozione, complicità, intesa. All'inizio veniva solo Mubakàhr nel nostro zeriba. Entrava, si sedeva in silenzio. Faceva il tè, ce lo offriva per tre volte com'è la loro consuetudine, con una naturalezza che rasentava, quasi, la quotidianità. Ci chiedeva delle parole in francese. Scandiva il loro significato in tamahaq. Erano quelle le nostre conversazioni. Ci presentò il suo territorio con delle silenziose passeggiate all'interno degli oued ricchi di vegetazione. Ci faceva vedere le tracce degli animali, ne faceva il verso. Così conoscevamo Mubakàhr. Poi anche gli altri vennero a trovarci, Mohamed, Hotman, Ahmed e altri ancora I bambini fecero fatica, restarono al margine del telone. Amavano il gioco ma diffidavano di noi. L'ultimo giorno proposi a Mubakàhr di srotolare il resto del quadro per farlo vedere, per far vedere cosa il popolo italiano era riuscito a dire. Il troppo vento non ci permise di fare un'esposizione vera e propria ma loro, gli abitanti di Tagranbait, non si fecero questo tipo di problemi: tirarono la stoffa colorata esaltandosi davanti ai colori plasmati dal migliaio di persone qui in Italia.
Srotolarono il quadro piano, divertendosi dapprima, scoprendo via via nuove immagini. Poi sempre più velocemente sino ad esaltare con emozioni sempre maggiori il complesso dei colori che si andavano a distendere sulla sabbia colorando quella terra dura, avara, faticosa. I bambini si arrotolavano nella stoffa quasi ad annegare gli occhi con i disegni dei loro piccoli fratelli che vivevano... e chissà dove vivevano i bambini italiani? Altri tentavano di acchiapparli in aria perché il vento li alzava verso il cielo e formava un lungo aquilone che voleva prendere il volo. I grandi correvano alzando polvere e tela. Urlarono, ad un certo punto, proprio come gli indiani.
Urlarono come se quel tessuto si fosse trasformato, improvvi samente, in un canto ritmato da un tam tam persistente e coinvolgente. Anche noi ci siamo messi a correre, ad urlare. Proprio così: uniti senza parole, solo da colori e da vento. Verso sera, mentre arrotolavamo il quadro, i bimbi si avvicinarono, ci sorrisero ed abbozzarono già dei giochi. Giochi fatti cogli occhi, colle mani. Capii che eravamo diventati anche i "loro" amici". Fu il loro grande, meraviglioso regalo. L'ultima notte vennero da noi tutti i giovani del villaggio. Ballarono, cantarono, ci offrirono il loro cibo...
L'indomani ci venne a prendere F. per portarci in. un accampamento di nomadi. " Mi stai dando coraggio - mi disse - non avrei mai immaginato che la mia gente avrebbe potuto fare quello che ha fatto. Hai percorso più di tremila chilometri per venirmelo a dire !"
Il nostro viaggio continuò all'interno dell'Hoggar, passando da Taifet, Tazrouk, e verso il Tassili n'Ajjer passando da Djanet, Izillì. Dipingere non è della cultura touareg eppure ce n'era poca di tela bianca, troppo poca. Certo, ora i touareg fanno i meccanici a Tam, i camionisti sulla transahariana, i camerieri negli alberghi, imparano l'arabo ed il francese. I loro nuovi cammelli hanno delle gomme consumate ed il motore che tossisce. Nei loro orti, le pompe tirano su dell'acqua sempre più profonda. Cercano, dai turisti, dei blue jeans a poco prezzo e delle maglie che non siano più i loro "roboni" che sventolavano al vento e che li rendevano simili a degli eterei fantasmi. Certo...sono così, oggi, i discendenti di quel popolo che non conosceva, né riconosceva carte o frontiere. Ma son pur sempre loro malgrado la sabbia divori sempre più verde, malgrado il sole asciughi sempre più acqua. Sono sempre loro, che siano come Mubakàhr il giovane capo di Tagranbait, come Rabàh il saggio meccanico di Tam, come Hikjlli che porta a spasso i turisti sui cammelli tra le rosse dune di Illizì. Sono loro, ancora non sono morti. I loro occhi sono tristi. I loro occhi che si confondono tra le pieghe dei cheches a tal punto che riesci solo a cogliere l'intensità del loro sguardo. No, non sono ancora morti, quelli che chiamano "Touareg"... Con noi hanno gridato ed il loro grido, ora, è colore che farà gridare altra gente, magari più a Nord dove i ghiacci sono così duri da non immaginare un popolo che ha sempre combattuto per la propria libertà, senza conoscere i cristalli che la sua poca acqua avrebbe saputo disegnare.
Prima di partire da Tamanrasset, ho lasciato a F. dei colori e dei pennelli. Anche lui, ora, s'impegnerà a realizzare nella sua città un quadro facendo partecipare la gente. Gli consegnerò cinquanta metri di tela bianca perché ci possa riuscire. In questo periodo sta cercando di ottenere, da parte del governo algerino, un'autorizzazione per venire all'estero con una decina di altri artisti touareg. L'idea è quella di fare una rassegna artistica touaregs qui, in Italia. Da parte mia, mi sono impegnato a cercare un comune disposto ad ospitarli, Sarà in quell'occasione che vorrò consegnarli quel piccolo rotolo di tela affinchè il " Mondo Dentro Ognuno Di Noi" possa vivere anche laggiù, nel cuore del deserto più grande del mondo.

Claudio Cimolino